Lettera di scuse a Wim Wenders
L’invidia è un sentimento, un peccato, una sensazione di malessere nella presenza del benessere altrui. È stata questa l’emozione a cui sono, finalmente, riuscita a dare nome, dopo giorni di scervellamento senza sosta.
Il merito di tanto pensare è da attribuire a Perfect Days, l’ultimo capolavoro di Wim Wenders arrivato in Italia qualche settimana fa. Uscita dalla sala, non potevo fare a meno di chiedermi “ma cosa ci hanno trovato di tanto bello la critica, i giornali, il mondo intero? È solo una comune vita, senza niente di speciale, anzi, abbastanza noiosa se posso dire la mia”. Non mi spiegavo questo successo ultra premiato e riconosciuto. Mi chiedevo cosa ci trovassero di tanto superlativo in un uomo che pulisce bagni pubblici per campare. Non ne capivo nemmeno il titolo: cosa c’è di tanto “perfect” nei giorni, monotoni e tutti uguali, di quest’uomo qualunque?
Ad un certo punto, l’illuminazione: perché non cambiamo punto di vista? Al posto di chiedermi perché la gente lo ami tanto, questo filmetto semplice semplice, perché non mi domando per quale motivo non mi sia piaciuto? A dirla tutta, perché lo odi?
La risposta è: perché sono invidiosa di Hirayama. Sono invidiosa del suo essere così felice e sereno, del suo accontentarsi di una vita umile, semplice e senza troppe pretese. Sono invidiosa dei piccoli piaceri che si concede, di tanto in tanto: la fotografia, la birra al pub la domenica, un misero libro da 100 yen, prendersi cura delle sue piante. Non ha bei vestiti, non ha una macchina costosa, non ha mobili o oggetti di valore, non ha neanche uno smartphone. Forse non guadagna neanche così tanti soldi dal suo lavoro, a cui però lui si dedica con passione e cura. Non ha nulla eppure sembra che non gli manchi nulla. Perché è così felice?
Io ho tanti vestiti, una camera piena di oggetti, soprammobili, accessori, tanti amici, tanti hobby eppure sono insoddisfatta. Sono sempre alla ricerca di qualcosa che mi possa rendere felice, anche per pochi minuti, anche un oggettino da pochi euro; sempre alla ricerca di qualcosa che non ho, perché sono certa che proprio quella cosa mi farà sentire appagata.
Dopo essere giunta a tale conclusione, non potevo che essere arrabbiata con me stessa per aver odiato questo capolavoro indiscusso, un film che può solo insegnare a me e a tutti che non son le “cose” a fare la felicità. È sempre più difficile far passare questo messaggio alla società nella fase più consumista e capitalista che abbia mai attraversato. Per questo motivo, ti chiedo scusa, Perfect Days, se non ho saputo cogliere e apprezzare da subito il tuo dolce significato.
“Perfect Days” è un mantra che mi ripeterò all’infinito, ogni qualvolta mi lamenterò di quanto poco posseggo, ignorando tutto ciò che ho e che non mi rende felice, facendo tesoro di tutto ciò che Hirayama non ha ma di cui non sente il bisogno.
Rebecca Fazzi
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